Centomila abitanti da traslocare nei prossimi trent’anni su un’isola
artificiale, una piattaforma galleggiante da due miliardi di dollari,
per sfuggire all’innalzamento del livello del mare dovuto ai cambiamenti
climatici: ipotesi ormai presa in seria considerazione dal presidente
dello Stato insulare di Kiribati, in Oceania. Una dichiarazione scioccante, fatta durante il recente Pacific Islands Forum di Auckland, in Nuova Zelanda. È l’organismo che annovera le Maldive e Tonga, Tuvalu e le Salomone insieme alle isole Cook.
Tutte accomunate dalla stessa sorte inquietante: l’incubo di ritrovarsi
presto sommerse dall’oceano, scomparendo dalle carte geografiche. Mappe
su cui, nel frattempo, altre isole nascono dalle acque. Lo conferma il
prestigioso Times Atlas of the World che, nella sua ultima versione, ha ufficialmente riconosciuto la Uunartoq Qeqertaq, o Warming Island, comparsa in questi ultimi anni a causa dello scioglimento dei ghiacci artici.
Il Presidente di Kiribati, Anote Tong, ha mostrato di
volere fare sul serio, per permettere ai suoi cittadini di non doversi
trasferire in altre parti del mondo. Prima che Kiribati si inabissi, gli
isolani traslocheranno su una maxi-piattaforma simile a quelle
petrolifere. “Se siete di fronte all’opzione di rimanere sommersi,
saltereste su di una piattaforma come quella? Penso che la risposta sia
‘Sì’”. Quando ha visto i modelli di queste strutture (a quanto pare
quelli nati dalle visioni futuristiche dell’architetto belga Vincent Callebaut),
Tong pensava di avere a che fare con qualcosa di fantascientifico, così
moderno da chiedersi se la sua gente potesse veramente viverci. “Stiamo
prendendo in considerazione tutte le opzioni”, conferma Tong, muovendo
dalla più semplice delle domande: “Cosa fareste per i vostri nipoti?”.
Del resto, oltre alla possibilità di non avere più una terra su cui
vivere entro i prossimi tre decenni, i problemi per Kiribati si
presentano già oggi a livello di spese: supera infatti i 900 milioni di
dollari (Usa) la cifra che il piccolo Stato-isola – come le altre realtà
insulari della regione, minacciate anch’esse dal global warming
– dovrà sostenere per proteggere adeguatamente le sue infrastrutture
dall’innalzamento delle acque marine. Servono soluzioni tecnologiche ma
anche finanziarie: obiettivo non facile, scovare i fondi necessari
all’innalzamento di barriere per proteggersi dal mare.
Fra utopia e realtà, più che ad enormi investimenti in avveniristiche
piattaforme galleggianti, probabilmente ci si dovrà preparare, nell’arco
dei prossimi trent’anni, a una serie di migrazioni ed evacuazioni di
massa. Nel Pacifico, infatti, Australia e Nuova Zelanda valutano già la
possibilità di dovere presto ospitare i Kiribatians e molti dei
loro vicini. Persone che, in fuga dal mare, giungeranno in cerca di una
nuova casa, dopo che la loro sarà stata inghiottita dalle acque.
Ormai è solo questione di tempo: le mappe e le cartine geografiche che abbiamo studiato a scuola stanno per cambiare. Secondo Times Atlas of the World,
l’atlante più completo al mondo, nel Pacifico è prossima la sparizione
di interi arcipelaghi, mentre in altre parti del globo si assiste al
fenomeno inverso: la comparsa di nuove isole, come Uunartoq Qeqertoq, a circa 650 km a nord del Circolo Polare Artico.
L’“Isola del riscaldamento”, in lingua Inuit, scoperta poco più di
cinque anni fa e ufficialmente inserita nelle mappe solo quest’anno, è
emersa dalle acque a causa dello scioglimento di importanti porzioni dei
ghiacci della Groenlandia. È la conferma della tesi avanzata dal
National Snow and Ice Data Center statunitense (Nsidc): in
collaborazione con Greenpeace, dopo i risultati di quest’estate relativi
alle (elevate) temperature del Mar Glaciale Artico,
l’istituto americano ha rilevato in questi giorni il secondo livello
più basso della contrazione dei ghiacci artici mai registrato. “Si
tratta di un chiaro segnale dell’impatto dei cambiamenti climatici sulla
calotta polare”, avverte il Nsidc.
Sconvolgimenti climatici che, per Tuiloma Neroni Slade,
segretario generale del Forum delle Isole del Pacifico minacciate dal
mare, sono “un pericolo del presente, non un problema per il domani”.
Meglio farsene una ragione, secondo Slade, perché ormai “l’adattamento è
una necessità, non una scelta”.
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